Il disastro del Vajont
Accadde 50 anni
fa, causò quasi 2mila morti ed è una storia indimenticabile di sventatezza
umana rispetto alle fragilità idrogeologiche.
Il Vajont è un
torrente. Nasce in Friuli e affluisce nel Piave subito dopo il confine
regionale in Veneto, a nord di Belluno, di fronte a Longarone: dove la stretta
valle tra le rocce si apre nella più laga e urbanizzata valle del Piave. Qui,
tra il 1957 e il 1960, fu costruita una alta diga (la più alta al mondo,
allora): il progetto era di ottenere energia idroelettrica da una rete di
bacini che coinvolgeva oltre al Piave e al Vajont altri fiumi dell’area.
Durante i lavori del Vajont, in uno di questi altri bacini, poco più a est, nel
1959 cadde una gigantesca frana che fece traboccare il bacino della diga di
Pontesei, uccidendo il suo sorvegliante.
I primi
riempimenti dell’invaso furono avviati a quote successive nel 1960, di fatto
trascurando diversi allarmi sui rischi di frane, e alcune frane reali senza
conseguenze negli stessi mesi: “la situazione è del tutto tranquilizzante,
essendosi riscontrati soltanto degli spostamenti assolutamente irrelevanti”,
diceva la richiesta di portare il livello dell’invaso a quota 700 metri. I
successivi test di tenuta furono condotti tra molte preoccupazioni degli
abitanti dei paesi a valle della diga e timori scientificamente esposti da
parte di molti esperti.
Il 9 ottobre
1963, alle 22.39. dal versante settentrionale del monte Toc a cui è appoggiato
un fianco della diga si staccò un’enorme frana, che scivolò rapidamente nel
bacino aritificiale creato dalla diga del Vajont. La massa della frana era più
grande dell’intero lago e quando ci precipitò dentro e causò due onde
gigantesche: una travolse le frazioni della valle del Vajont a est della diga,
disperdendosi nel punto dove si allarga e risparmiando per pochissimo il paese
di Erto; l’altra scavalcò la diga a ovest e si rovesciò sugli abitanti nella
valle del Piave con un percorso durato quattro minuti, poi salì sul versante
opposto fino a perdere forza e rovesciarsi di nuovo all’indietro nella valle.
Distrusse paesi e frazioni, soprattutto Longarone, e uccisse quasi duemila
persone.
La mattina
dell’incidente l’ingegner Alberico Biadene, direttore dei lavori della SADE, la
società che aveva costruito la diga del Vajont da poco passata sotto il
controllo dell’ENEL, aveva inviato una lettera al capocantiere Mario Pancini,
chiedendogli di rientrare dalle ferie. La lettera terminava con un
post-scriptum in cui diceva di essere preoccupato per quello che stava
succedendo sul versante del monte Toc:
“P.S. Mi telefona ora il geom. Rossi che le misure
di questa mattina mostrano essere ancora maggiori di quelle di ieri,
raggiungendo una maggiorazione del 50%!! (cioè da 20 a 30 cm). Si nota anche
qualche piccola caduta di sassi al bordo ovest (verso la diga) della frana. Che
Iddio ce la mandi buona.”
La frana che
cadde quella sera aveva una massa di 270 milioni di metri cubi. I primi detriti
impiegarono circa 20 secondi a raggiungere l’acqua. Poi, quando il grosso della
frana precipitò nel lago, ci fu un rumore “come di un millione di camion che
rovesciano un milione di cassoni di ghiaia”, ha raccontato al Corriere della
Sera lo scrittore Mauro Corona che all’epoca aveva 13 anni e viveva vicino alla
diga.
Intorno alle
22.00, Giancarlo Rittmeyer, quella notte di guardia alla diga, chiama
l’ingegnere Biadene, rappresentante della SADE. Comunica che la montagna sta
cedendo a vista d’occhio. Chiede istruzioni. Biadene cerca di calmarlo, ma lo
esorta a “dormire con un occhio solo”. Nella telefonata, si intromette la
centralinista di Longarone, chiedendo se ci sia pericolo anche per quel centro.
Biadene le risponderebbe di non preoccuparsi, e di “dormire bene”.
La massa
d’acqua cadde sulla valle dopo un salto di più di 260 metri, lasciando integra
la diga. Aveva una tale massa e velocità che secondo alcuni studi recenti
generò un’onda d’urto forte come quella provocata da una piccola esplosione
nucleare, e un vento fortissimo la precedette. Probabilmente molte case e
persone vennero spazzate via ancora prima di essere toccate dall’acqua: quella
sera in molti erano a casa o nei bar a guardare la finale di Coppa dei Campioni
tra Glasgow Rangers e Real Madrid. Dei 1.918 morti stimati, soltanto 1.500
furono recuperati e soltanto 750 erano in condizioni tali da poter essere
identificati (qui potete leggere lo speciale del Corriere della Sera, con gli
schemi e le mappe della frana, e qui quello del Corriere delle Alpi).
La questione delle responsabilità
Subito dopo il
disastro e dopo i primi soccorsi, la comunità scientifica, i politici e i
giornalisti si divisero tra quelli che ritennero la frana prevedibile e quelli
che invece dissero che era un evento sfortunato e non preventivabile. Tra i
primi c’era il Partito Comunista, che chiedeva la nazionalizzazione della
produzione elettrica e che accusò la società privata che possedeva la diga, la
SADE, di aver provocato il disastro. L’Unità e la giornalista Tina Merlin già
nel 1961 avevano denunciato il pericolo di una frana.
Tra gli altri
c’erano lo scrittore Dino Buzzati e il giornalista Indro Montanelli, che
imputarono il disastro a un caso fortuito e accusarono i teorici della
“prevedibilità” di combattere una battaglia politica a favore della
nazionalizzazione. In realtà era chiaro a tutti i tecnici da molto tempo che
una parte del monte Toc stava per franare. C’erano molti indizi sul fatto che
la frana sarebbe stata di grandi dimensioni, anche se c’erano dei dubbi sulla
velocità che avrebbe avuto una volta cominciata.
Anche sulle
cause del disastro ci furono molti dubbi. Nei giorni della frana era in corso
una “prova di invaso”, cioè il bacino della diga era stato riempito durante una
prova di collaudo. Alcuni sostennero che era stato questo a causare la frana,
mentre per altri la cusa erano state le fortissime piogge di quelle settimane.
Per quanto non si sia mai arrivati a una risposta definitiva, fu chiaro che la
decisione di riempire il bacino fino a 700 metri di altezza sopra il livello
del mare fu un rischio molto grave. I test fatti in passato avevano dimostrato
che l’acqua a quell’altezza, in caso di frana, avrebbe rappresentato un
gravissimo pericolo per i comuni a fondovalle.
Nel 1971, dopo
7 anni e mezzo di processo, la Corte di Cassazione riconobbe Alberico Biadene
(direttore del servizio costruzioni idrauliche della SADE) e Francesco
Sensidoni (capo del servizio dighe del ministero dei lavori pubblici e componente
della comissione di collaudo) colpevoli di inondazione aggravata dalla
prevedibilità dell’evento, e di non aver dato per tempo l’allarme alla
popolazione. ENEL e Montedison, che aveva intanto inglobato la SADE, la società
che aveva costruito la diga, furono condannate al risarcimento dei danni.
La storia del
disastro del Vajont ritornò all’attenzione nazionale a partire dal 1993 anche
grazie allo spettacolo teatrale e poi televisivo di Marco Paolini e Gabriele
Vacis, Il racconto del Vajont.
Il 9 ottobre 1963 è capitata una delle tragedie più importanti dell'Italia odierna. 33 anni fa. Oggi le grandi infrastrutture come le dighe passano degli esami completi allo scopo di non avere nessun problema né ambientale né di costruzione che provocchi nessun disastro come quello.
Ma se te abitassi un paese sotto una diga come Longarone prima del disastro, ti fideresti di abitare lì? Conosci qualche caso di una diga nel tuo paese che abbia significato un pericolo o un rischio di disastro come quello della diga del Vajont?
Infine, voglio consigliarvi di leggere Mauro Corona. È un autore noto, un po' strano ma interessante, che abita a Erto, paese che ha anche sofferto la conseguenze della frana e la tragedia del Vajont e da dove sono originari i suoi genitori. Leggere I fantasmi di pietra è immergersi nella storia del Vajont. Una lettura interessante...
No hay comentarios:
Publicar un comentario