domingo, 31 de julio de 2016

Cercasi pizzaiolo



Cercasi pizzaiolo

Il forno cerca un vero professionista

Italia vuol creare la figura del lavoratore qualificato al fine di tutelare la qualità del prodotto


Piergiorgio M. Sandri. Barcellona. Tradotto dalla Vanguardia (30 lug. 16)


    Cercasi pizzaiolo. Mica uno qualsiasi. Un vero professionista. Italia, culla della pizza, vuol creare una “laurea” ufficiale e un collegio che riconosca il lavoratore qualificato nel settore pizza. Una proposta di legge è stata presentata al Senato settimane fa ed è prevista la sua approvazione dopo l’estate.

    Chi voglia vantarsi di sapere cucinare l’autentica pizza italiana dovrà superare delle prove: dovrà anche superare delle pratiche di 18 mesi, dei esami teorici e delle lezioni di 120 ore che comprendono le nozioni di chimica, tecniche di laboratorio e di igiene, fino alla conoscenza specificata dell’inglese.

    L’iniziativa ha una motivazione sorprendente: la mancanza di pizzaioli di qualità. Si stima che nel paese ci sono più di 10.000 vacanti. La richiesta supera l’offerta. Anche se lo stipendio di un vero pizzaiolo può superare i 3.000 euro mensili. Ma buoni e veri pizzaioli ci sono ogni volta di meno e incluso in Italia (dove lavorano nel settore quasi 100.000 persone) c’è tanta scarsità che si deve andare all’estero a cercarli.

    Secondo i dati della Coldiretti, quattro di ogni dieci pizzaioli in Italia provengono dall’estero: in particolare dall’Egitto, dalla Tunisia e dal Morocco. In città come Milano, più della metà delle pizzerie non sono italiane.


    Non è per pattriottismo o per protezionismo: gli esperti in questo alimento si lamentano che la qualità della pizza, in un paese di riferimiento come l’Italia corre pericolo di cadere a picco se quelli che cucinano non hanno le conoscenze adatte. In effetti, molte delle pizzerie (infatti non solo in Italia, anche in Spagna) non manipolano bene la pizza, o non si servono degli ingredienti tradizionali: pomodori della Cina o mozzarella della Lituania, olio di oliva della Tunisia e il frumento del Canadà solo per citare i casi più appariscenti che denunciano le associazioni del settore. Queste fonti stimano che due di ogni tre pizze che si servono nei ristoranti non si adattano a questi requisiti.

    Enzo Prete, presidente  della Amar (Associazione Maestri d’Arte Ristoratori Pizzaioli) e uno dei promotori di questa proposta di legge, crede che la situazione è grave. “Gli italiani aspirano ad essere amministratori delle sue aziende e non vogliono più mettersi dietro il forno. Ci sono pochi aspiranti e ogni volta esiste più intrusismo professionale”.

    Ma la pizza, insomma, è una cosa seria: l’Associazione di Pizzaioli Napoletani ha incluso lanciato una campagna perché la pizza sia nominata come Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Pertanto la questione è di attualità: come deve essere l’autentica pizza italiana?

    All’attesa che il pizzaiolo ottenga una riconoscenza ufficiale che certifichi le sue abilità, come riconoscere se il piatto che è appena servito è stato cucinato d’accordo con i modelli gastronomici stabiliti? Walter Caputo e Luigina Pugno, due divulgatori scientifici, hanno appena publicato un libro che parla sul serio sulle chiavi per ottenere una buona pizza: Pizza al microscopio.

    Raccontano che durante le vacanze nell’Algarve, in Portogallo, hanno mangiato una pizza che “non era degna di avere questo nome: la base sembrava di legno, sulla quale hanno messo il formaggio e il ketchup”. L’esperienza gli ha marcato e si sono messi sul serio per scrivere un libro su questo argomento.

    L’autentica pizza dovrebbe essere cucinata in un forno di legna a forma di cupola, a una temperatura tra i 450 e i 600 gradi, in un tempo che deve oscillare tra i 60 e i 90 secondi, con gli ingredienti naturali: pomodori (meglio se si servono dei pomodori della varietà San Marzano), fresco o triturato – mai a base di concentrato –, mozzarella (di mucca o di buffala) e soprattutto una massa che, elaborata con l’acqua con la temperatura tra i 20 e i 35 gradi, abbia almeno due ore di riposo.

    “Abbiamo verificato che spesso non si rispetta questa pausa per guadagnare il tempo”, avvertono. Per Enzo Prete, è imprescindibile valutare l’uso degli ingredienti di chilometro zero ed evitare gli errori più comuni, come l’eccesso di lievito, che rappresenta una bomba a orologeria per la digestione, con la sensazione che il cibo finisca per gonfiarsi nello stomaco”.

    Un inciso: pur seguendosi i consigli, a casa, con il forno elettrico, è tutto più difficile, perché la temperatura è troppo bassa e l’assorzione dell’umidità è eccessiva, è si corre pericolo che la pizza abbia una struttura simile a quella di un biscotto. Caputo e Pugno consigliano di mettere sotto la pizza una pietra refrattaria e un recipiente con un po’ d’acqua, e così si migliora la cottura.

   D’una altra parte, le indagini degli autori, che analizzano i composti chimici degli ingredienti della pizza, sono arrivati alla conclusione che finisce con un altro dei miti sulla pizza: ingrassa?. “La pizza è un cibo completo perché ha le grasse dell’olio, le proteine del formaggio e gli idrati di carbonio della massa. È un alimento completo, e non si è bisogno di mangiare niente di più dopo averla mangiato, e neanche è necessario mangiarla ogni giorno”, dicono.

    Dunque la pizza nasce come piatto della classe popolare, nella seconda metà del secolo XIXessimo, nella provincia di Napoli. Davanti alla scarsità d’alternative, con la pizza ci si stava saziato senza spendere troppi soldi. Nell’attualità le cose hanno cambiato tantissimo perché alla pizza, che è troppo popolare fino a diventare un piatto universale, gli sono usciti nuovi “rivali”. Dal sushi, il kebab o l’hamburguer, oggigiorno il cliente ha tantissime opzioni per saziare la sua fame.

    Quindi, se alla fine i pizzaioli ottengono la loro riconoscenza per diffondere il mantra dell’autentica pizza italiana, forse otterranno qualcosa in più: mantenere il suo fascino come cibo versatile, sano e divertente. “È sinonimo di festa, di stare insieme. La pizza piace a tutti. Alla fine del pasto, tutti si sentiranno soddisfatti”, ricordano gli autori del libro. E se la pizza la cucina un pizzaiolo con il certificato ufficiale, probabilmente saprà incluso meglio.




Come riconoscere una buona pizza al forno di legna

(fonte: “La pizza al microscopio”, de Walter Caputo e Luigina Pugno. La Vanguardia 30 lug.’16)


1.       La dimensione è importante: la regola dice che, a stessa quantità di massa, se il diametro è superiore ai 32 centimetri, la massa sarà eccesivamente fine, sottile, e si corre pericolo di bruciarsi. Invece, se si serve una pizza più piccola, il suo eccessivo spessore farà che la pizza stia cruda.


2.       L’odore: l’autentica pizza deve fare odore a pane. Se non succede così, vuol dire che il forno non stà pulito, oppure che gli ingredienti usati non sono di qualità.


3.       Il taglio: è una delle principali prove. Se non si taglia bene è perché sta poco cotta. Se sta eccessivamente dura, è troppo cotta, e se al taglio si sente un scricchiolo, sta secca!


4.       L’orlo: devono avere delle macchie scure. Se non ce li hanno, vuol dire che la pizza è cruda, e se ci sono troppe, allora è bruciata. La pizza non deve stare nel forno più di due minuti.


5.       La base (guardare sotto!): deve avere una minima presenza di cenere (ma non di particole bruciate). Se la base è bruciata, vuol dire che il forno no si è preparato bene. Il forno ha bisogno di alcune ore di acceso prima per avere una temperatura di più di 400 gradi.


6.       Il condimento: la disposizione sulla pizza è importante: se i condimenti non si collocano di un modo uniforme, a parte il fatto che si difficolta il taglio, vuol dire che gli ingredienti non si sono manipolati di un modo corretto.


7.       Il formaggio: deve essere mozzarella fatta da latte di mucca o di buffala, ma è necessario scolarla prima della cottura. Altrimenti una “pozza” di latte apparsa sulla pizza farebbe che la pizza fosse un po’ “liquida”.




    Ci sono tantissime varietà di pizze che mi viene di fare questa domanda, per avere la vostra opinione: quale è la vostra varietà di pizza preferita? Come vi piace la pizza? E, quale è la vostra opinione su queste pizze fatte delle ditte che fanno cibo “fast food”? Considerate che è una buona pizza oppure fa schifo?

viernes, 29 de julio de 2016

Il Tiramisù



Il Tiramisù

(dalla web ricetta.it)

    La ricetta del tiramisù è una delle più conosciute e antiche della cucina italiana. È un dolce al cucchiaio composto da strati di biscotti savoiardi inzuppati nel caffè e farciti con una crema a base di mascarpone.

    Le origini del tiramisù sono incerte e sono almeno tre regioni a contendersene l’invenzione: il Piemonte, il Friulli Venezia Giulia e il Veneto. 

    Quello che rimane certo è che il Tiramisù è un dolce ormai divenuto famoso in tutto il mondo.

Categoria: Dolci al cucchiaio
Tempo di preparazione: 30 minuti




Tiramisù con la ricetta originale

Ingredienti per quattro persone

-          3 uova

-          20 savoiardi
 
-          Sale q.b

-          250 g di mascarpone

-          1 moka media di caffè non zuccherato

-          Cacao amaro q.b

-          100 g di zucchero

-          1 bicchierino di rum o marsala

Difficoltà: facile

Tempo di preparazione: 35 minuti più tre ore di raffreddamento


Preparazione:


    Il caffè da utilizzare per il Tiramisù dovrà essere appena fatto, normale o decaffeinato; andrà zuccherato poco in quanto i savoiardi sono già abbastanza dolci.

    Aggiungere al caffè i rum o il marsala, e lasciare intiepidire il tutto. Nel frattempo prendere le uova e separare per bene i tuorli dagli albumi. Gli albumi andranno riposti in una ciotola per la lavorazione successiva, mentre i tuorli con lo zucchero vanno mescolati con una frusta. Si deve ottenere un composto chiaro e spumoso al quale andrà aggiunto poco alla volta il mascarpone già fuori frigo da cinque minuti per renderlo più morbido. Mescolare delicatamente.

    Per chi non può consumare uova crude, dopo aver mescolato i tuorli con lo zucchero far cuocere a bagnomaria e prima di unire il mascarpone far raffreddare lo zabaglione.

    Ma ritornando alla ricetta base, prendere la ciotola dove erano stati riposti gli albumi e montarli a neve per bene, poi unirli al composto di tuorli zucchero e mascarpone. Mescolare con delicatezza dal basso verso l’alto.

    A parte, immergere velocemente su entrambi i lati i savoiardi nel preparato al caffè. I savoiardi devono essere quelli di tipo morbido, perchè quelli secchi se bagnati poco nel caffè restano asciutti al centro, se bagnati troppo tendono a disfarsi.

Disposizione a strati nella pirofila:

    Arrivati questo punto spalmare il fondo della pirofila rettangolare con la crema al mascarpone, sopra disporre i savoiardi inzuppati l’uno accanto all’altro formando uno strato. Ricoprire i savoiardi con la crema, poi ancora uno strato di savoiardi e ricoprire ancora con la crema; spolverizzare abbondante cacao amaro su tutta la superficie del Tiramisù. 

    Mettere il dolce in frigorifero per tre ore circa prima di servire.

Suggerimenti e abbinamenti:

    Usare un passino per spolverizzare il cacao sul Tiramisù, al fine di ottenere una polvere compatta e finissima. Nel momento di servire il dolce è possibile accompagnarlo nel piatto con fragoline come decorazione.

    Scegliere il vino che accompagnerà il gusto e la squisitezza del Tiramisù non è difficile. Basta servire un vino dolce o con le bollicine, magari l’Albana dolce o il Moscato d’Asti.

    Ma se si vuole offrire il Tiramisù ai bambini sarà necessario inzuppare i savoiardi nel latte fresco e cacao dolce, mentre sulla superficie della crema spolverizzare cacao amaro mescolato ad un cucchiaino di zucchero a velo.




   Sapete che ci sono altre varianti di preparare il Tiramisù. Dovrete scoprirle e dopo ci raccontate come è stata l’esperienza di prepararlo. E dopo dovrete offrirlo per assaggiarlo. Provateci e condividete l’esperienza sul blog... Vi aspettiamo.

IL LINGUAGGIO DEI GIOVANI



IL LINGUAGGIO DEI GIOVANI E L’ITALIANO (CHE CAMBIA): “LO SLANG AIUTA A DIVENTARE ADULTI”

Vera Gheno (Accademia della Crusca): “i neologismi nascono per un motivo semplice: perché servono”. 

Pubblicato il 28 aprile 2015, ADNkronos

   In principio era il verbo, poi arrivò scialla. Una lingua nasce, cambia, si rinnova. E lo fa anche (o soprattutto) grazie ai neologismi inventati dai giovani o portati nel linguaggio comune dai grandi cambiamenti, come quello innescato da Internet.

   Dopo la creazione, arriva la diffusione. Nel caso di scialla (che vuol dire stai tranquillo, rilassati ), probabilmente è stato grazie al film del 2011 di Francesco Bruni – tratto dall’omonimo romanzo di Giacomo Bendotti – che la parola ha raggiunto un gran numero di persone, molto al di là della cerchia dei più giovani.

   Ma perché nascono i neologismi? “Il motivo più semplice è: perché servono”. Non ha dubbi Vera Gheno, Twitter Manager e collaboratrice dell’Accademia della Crusca, che all’ADNkronos dice: “Abbiamo un nuovo significato, come dice il linguista svizzero Saussure, ovvero un concetto, una cosa, un oggetto, qualcosa insomma che prima non c’era e che quindi ha bisogno di un nome, ovvero, per dirla sempre alla Saussure, un significante”.

   “Si possono creare parole nuove per gioco – prosegue – per voglia di fare esperimenti con la lingua. Non a caso i linguaggi giovanili e i linguaggi telematici, particolarmente giocosi, sono terreno fertile per la creazione di neologismi”.

   Sono infatti loro, i ragazzi, che continuano ad usare la gran parte di espressioni in codice per capirsi senza troppe giri di parole. Così se due amici si dicono quella è una busta, i loro coetanei sanno che stanno parlando di una cozza o ciste, scaldabagno, lavatrice, scallapizzette. Ovvero, una ragazza non bella.

   Una vera e propria Slangopedia, come la chiama Maria Simonetti nel suo Dizionario dei gerghi giovanili, edito da Stampa Alternativa. Nel libro, sul versante delle parole mutuate dagli animali, ci sono tra le altre mi cangura (per indicare che una questione non mi riguarda ) e inscimmiarsi (per chi si concentra su una sola cosa e la ripete in modo ossessivo ).

   E, ancora, chiamare limone chi si circonda di cozze, rimastino chi alle feste non balla, rimastone l’over 40 che si veste e si comporta da giovane (ma il giovane dei suoi tempi), oppure sdraiona per una ragazza molto emancipata e dentiera per riferirsi alla prof o – in senso lato e un po’ perfido – agli anziani.

   A questi si accompagnano i più storici trescare (avere un flirt ), camomillarsi (calmarsi ), tranqua (tranquillo ), sbalconato (essere fuori di testa ), incicognarsi (restare incinta ) e citofonarsi (chiamare qualcuno per cognome ).

Tutte queste espressioni come si diffondono? “In generale – aggiunge Vera Gheno – un neologismo inizia a circolare se è utile, o se piace, oppure se viene usato da qualcuno che ammiriamo: oggi si potrebbe parlare di influencer, ovvero personaggi che in qualche modo sono in gradi di influenzare i gusti delle persone. Sicuramente, un neologismo può venire veicolato da un film, da un libro o da un social network, ma contano moltissimo le persone, in questo processo”.

   Dalle persone al web, il passo è breve. Non si può negare che anche Internet abbia cambiato il modo di comunicare, non solo nella realtà di quali modi vengono usati per parlare (applicazioni, chat, social network) ma anche nelle espressioni mutuate dal mondo dell’on line.

   Del resto, se dieci anni fa qualcuno avesse detto “mi whatsappi la foto che hai twittato così la posto su Facebook?”, molti – forse chi era over una certa età – avrebbero alzato un sopracciglio perplessi. Oggi probabilmente, no.

   Tanto che del linguaggio mutuato dal mondo dell’Information and Communication Technology e da quello dell’informatica fanno parte anche parole come bannare (bloccare l’accesso, escludere ), loggarsi (effettuare un acceso ), cliccare (parola onomatopeica per indicare di premere un pulsante ), crackare (aggirare le protezioni di un programma ), scrollare (scorrere la rotella del mouse per leggere una pagina sul web ) o zippare (comprimere file in una cartella per occupare meno spazio ).

   “Certamente – sottolinea Vera Gheno – i nuovi media hanno velocizzato la circolazione di notizie, parole, espressioni; basti pensare alla facilità con cui tutto oggi può diventare virale, o magari un meme: i vecchi tormentoni oggi si chiamano così”. Una sorta di contenuto intergenerazionale, compreso e condiviso sui social da figli e genitori allo stesso tempo.

   Esistono naturalmente differenze di linguaggio tra generazioni ma “anche all’interno della stessa generazione – afferma – possono cambiare letteralmente da gruppo a gruppo, da compagnia a compagnia e la nascita e morte di parole nuove è sempre stata velocissima, forse oggi ancora di più, semplicemente perché si può arrivare prima alla fase del tramonto, del non poterne più”.

   Veloce, ma anche utile? Ovvero, lo slang arrichisce la lingua? “I linguaggi giovanili – dice la Twitter Manager e collaboratrice dell’Accademia della Crusca – sono delle varietà particolari perché sono di transizione tra la fase dell’infanzia e la fase della maturità. Servono moltissimo per costruire il sé crescendo e tale autodefinizione deve per forza passare da una fase di rottura con le generazioni precedenti”.

   Quindi, afferma, “questi slang appariranno sempre strani e brutti ai vecchi ma normale che sia così. Poi si cresce e in teoria si abbandonano i giovanilismi, anche se questo non sempre avviene”. Crescendo, infatti, “si dovrebbe ridurre l’uso di stilemi del linguaggio giovanile”, anche se, ammette la Twitter Manager e collaboratrice dell’Accademia della Crusca, “la pervasività dei nuovi media ha allargato la forbice anagrafica” di chi li usa.

   Tanto che potremmi trovare un 40enne che sui social usa le stesse espressioni dei 20enni, entrando da fuoriquota in gruppi anagraficamente lontani da lui, considerando che “il linguaggio giovanile e quello dei nuovi media, spesso, si sovrappongono”.

   Inoltre, “nella comunicazione giovanile è implicita una funzione tribale”, afferma Vera Gheno, una sorta di “codice per riconocersi fra simili ed escludere gli altri dalla comunicazione del gruppo”, all’interno del quale “il lessico permette l’identificazione, anche attraverso epiteti o soprannomi a volte crudeli”. Ci si rende conto che certi nomignoli possono ferire la sensibilità delle persone? “Non sempre. La coscienza dell’offesa viene dallo sviluppo”.

   Offese a parte, però, lo slang rimane insomma una risorsa per l’autodefinizione e finisce per conquistare anche chi giovane non è più: “A volte – conclude Gheno – succede anche che elementi di questi linguaggi finiscano nel parlato di tutti i giorni. Con la loro velocità, i linguaggi giovanili rappresentano una formidable fucina di idee linguistiche, alcune assolutamente transitorie, altre destinate a rimanere”. 




“BELLA, REGA’!” – LEZIONI DI GERGO GIOVANILE
Robin d’Ilario. Pubblicato il 8 gennaio 2013, il Corriere Italiano
   Come i giovani di molti paesi del mondo, anche quelli italiani hanni dei propri gerghi che li distinguono dagli adulti. Senza addentrarci in un’analisi di come e perché si sviluppino questi particolari linguaggi, diciamo che l’uso di un gergo ha una funzione identitaria e di autoaffermazione per gli adolescenti, che hanno nella giovane età il tratto che li distingue da genitori, insegnanti, ecc. Lasciando da parte le analisi sociologiche, questi gerghi spesso bizzarri e bislacchi, per non dire pintoreschi, ci offrono lo spaccato della mentalità e delle abitudini giovanili. Non è un caso che la maggior parte di queste parole abbia a che fare con la scuola, con l’amore, il sesso, la droga, il divertimento. Dico gerghi al plurale, e non al singolare, perché è pressoché impossibile tracciare una mappa precisa e dettagliata del gergo usato dai giovani italiani: non ne esiste uno comune a tutta l’Italia, ma varia di regione in regione, addirittura di città in città. Il lessico, poi, subisce ricambi molto rapidi nel tempo, le parole usate da una generazione non sono più quelle dei ragazzi di dieci anni prima. Qui ci limitiamo a riportarne alcune, con particolare riferimento al gergo dei ragazzi di Roma.
Accannare: smettere, cessare, farla finita con qualcosa o qualcuno. Es.: Quella tipa s’accola, accannala!  Sto gioco mi ha stufato, rega’, accanniamolo.
Accollarsi: essere appiccicosi come la colla, essere molto insistenti e, spesso, non desiderati. Es.: Quanto si accolla quello. Esiste anche come sostantivo nella forma accollo. Es.: Quella tipa è un accollo!
Bella: non è un aggettivo, ma un saluto. Si può usare quando ci si incontra con un gruppo di amici, ad esempio: Bella, rega’, come va?. È un saluto molte amichevole e vivace, usato sia quando si incontra qualcuno, sia quando ci si congeda.
Devasto: devastazione, sfacelo, gran disordine. Il devasto può verificarsi dopo una festa molto movimentata in cui una casa è stata messa a soqquadro, suscitando l’inevitabile commento degli astanti: “Che devasto!”. In questo senso può avere un’accezione positiva, poiché se una festa viene definita un devasto vuol dire che è stata particolarmente vivace e sfrenata (esempio: “Non puoi capire che devasto a Capodanno!”). Chi ha partecipato a una serata devasto probabilmente si è devastato, cioè si è dato a festeggiamenti sfrenati che alla fine lasciano stremati.
Flashare/flesciare: attestato in due diverse forme grafiche, può avere il significato di vedere di sfuggita, credere di aver visto qualcosa o qualcuno, per un istante, rendendosi poi conto di essersi sbagliati. Esempio: “Per strada ho flashato Mario, ma non era lui”. Altrimenti può significare anche immaginare, credere una cosa che non si è affatto verificata, come nell’esempio: “Non ho mai detto così, hai flashato”.
Presa a bene: locuzione usata per designare qualcosa che mette di buon umore, che diverte, fa rilassare. “Quel film è proprio una presa a bene!”. Usato anche come verbo: “Questa canzone me l’ha fatta proprio prendere a bene”. Esiste anche l’esatto contrario, cioè la presa a male, con un significato molto vicino a quello di scesa (vedi oltre).
Rate: si dice che qualcosa fa rate quando fa schifo, è di pessima qualità, scarso. Es.: “Questa canzone fa rate”. Usate anche come generica esclamazione di disgusto: Che rate!”. È possibile anche una sua funzione aggettivale, ad esempio si può dire che se un telefonino è diffettoso è un telefonino rate. Difficile caprine l’etimologia, anche se è probabile che non derivi dal sostantivo rate, ma dal verbo radere.
Scesa: si dice di qualcosa che mette di cattivo umore, che fa passare l’allegria e l’entusiasmo. Se per esempio ci si reca ad una festa pensando che sarà molto movimentata e si rivela invece molto noiosa, si può dire che “è una scesa di festa”. Usato anche come esclamazione: “Che scesa!”.
Sclerare: impazzire, uscire fuori di senno, dare di matto. Probabilmente deriva dal termine medico “arteriosclerosi”, che indica una patologia per cui si subisce una progressiva perdita di senno e di lucidità. Es.: “Oggi la prof. si è arrabbiata di brutto e ha sclerato”.

Svarionare: deriva dal termine svarione, che indica un grave errore, spesso grossolano. Questo verbo significa dunque dire assurdità, dire cose che non stanno né in cielo né in terra. Es.: “Gianni era ubriaco e svarionava di brutto”.

Taglio (tajo): qualcosa o qualcuno di molto divertente, che fa ridere. Es.: “Quel film è un tajo” o “Quel tipo è un tajo!”. Possibile anche come esclamazione autonoma in qualsiasi situazione divertente: “Che tajo!”.

Scialla: facendo un piccolo torto all’ordine alfabetico, eccoci infine alla parola che dà il titolo a questa rubrica. È una delle espressioni più comuni del gergo giovanile, nata a Roma ma diffusasi anche in altre parti di Italia. Significa stai tranquillo, rilassati, non c’è problema, non ti preoccupare e così via, un po’ l’equivalente dell’inglese take it easy. È usata come esclamazione per comunicare agli altri serenità e rilassatezza, in contesti come: “Quando comincia il film? Scialla, c’è ancora tempo”. Si tratta di un’interiezione indeclinabile, ma esiste anche come aggettivo, e come tale può essere declinato in altri modi; si può dire ad esempio “una serata scialla” così come “un pomeriggio sciallo”, “un posto sciallo”, ecc., con il significato di tranquillo, rilassato, ok. Da questa parola sono derivate anche forme verbali come sciallarsela, stare scialli. Esempi: “Stasera me la sciallo a casa a vedere un film”; “Scialliamocela qui finché non decidiamo cosa fare”, ecc.

L’etimologia della parola è incerta. Secondo una teoria sarebbe un prestito dall’arabo “inshallah”, espressione che significa all’incirca “se Dio vuole”, e che indica dunque un atteggiamento di accetazione del destino, delle circonstanze, un affidarsi agli eventi senza angoscia, Non stupisce che una parola che esprime un concetto del genere abbia attecchito in particolar modo a Roma, dove ben si adtta all’atteggiamento tipico dei romani, spesso rilassato, scanzonato e disincantato. In più i giovani vi hanno aggiunto una loro tipica pigrizia e indolenza giovanili, quasi ad esprimere una filosofia di vita che esorta ad essere tranquilli, a non angustiarsi inutilmente, a prendere le cose con serenità.

Se l’argomento vi ha interessati e volete saperne di più, scialla, ci torneremo in una delle prossime rubriche.

Robin D’Ilario. E-mail:robin.dilario@hotmail.it



Tutte le lingue hanno un gergo speciale fatto dai giovani e per i giovani, fatto da neologismi e dalla lingua colloquiale. Adesso vi metto un esercizio dove dovresti abbinare la parola italiana col suo significato in spagnolo. Provateci. Sicuro che lo abbineresti bene:

1.       Attacare pezza                                                  a) imbécil
2.       Baccagliare                                                         b) colega, brother
3.       Prendere per il culo                                          c) un beso (acrónimo lenguaje sms)
4.       Fricchettone/a                                                   d) ser un crack
5.       Homy                                                                   e) pegar la paliza
6.       Joint                                                                     f) camello
7.       Mandrake                                                           g) tirar los tejos
8.       Mezzasega                                                         h) hortera, quillo
9.       Pusher                                                                 i) tomar el pelo
10.    Shampista                                                           j) porro
11.    Tamarro/a                                                           k) hippy
12.    Ub                                                                         l) pringao

Adesso, invece,  faremo il contrario: daremo la parola in spagnolo e dovresti abinarla con la parola o il signifcato in italiano. Come prima, provateci! Sicurissimo che lo abbineresti bene...

1.       Abrirse                                                                 a) pulotto
2.       Trola                                                                     b) bocconcino
3.       Bollicao                                                                c) squatter, punkabbestia
4.       Chirona                                                                d) benza
5.       Chupito                                                               e) fichetto, chiattillo (nap.), pariolo (rom.)
6.       Encoñarte                                                           f) balla
7.       Gasofa                                                                 g) cicchetto
8.       Jipiar                                                                     h) fare vento
9.       Madero                                                               i) al fresco
10.    Okupa                                                                  j) vederci
11.    Pijo/a                                                                    k) smammare
12.    Hacer un simpa                                                  l) starci sotto

Che ne pensi del gergo giovanile? È anche importante conoscere il gergo della giovinezza attuale per provare di capire le sue abitudini o le sue preoccupazioni? È anche importante il gergo nella tua lingua, catalano, spagnolo o qualsiasi altra che ne parli?